Lo Zen
Zen è un termine giapponese: esso è la lettura giapponese dell'ideogramma cinese ch'an, che è l'equivalente della parola sanscrita dhyana, che significa meditazione ed è una delle sei “perfezioni” (paramita) che rendono possibile il conseguimento dell'“illuminazione” (bodhi), zen significa dunque meditazione. Essa si compie “stando seduti” (za): donde la parola zazen che significa “sedere in meditazione” in una apposita stanza che si trova in ogni monastero zen e che si chiama sendo (tanza [do] della meditazione).
Definire lo zen in termini di sistema o struttura religiosa equivale a distruggerlo - o meglio a fraintenderlo completamente, perché ciò che non si può “costruire” non si può nemmeno distruggere. Non si può comprendere lo zen collocandolo entro precisi limiti o conferendogli una fisionomia caratteristica o lineamenti facilmente riconoscibili in modo che, quando vediamo queste forme definite e peculiari, diciamo: “Eccolo!” Non si comprende lo zen collocandolo in una particolare categoria, separato da ogni altra cosa: “È questo e non quello.” Come dice Suzuki, lo zen è “al di là del mondo degli opposti, un mondo fatto di distinzioni intellettuali... un mondo spirituale di non-distinzione che comporta il raggiungimento di un punto di vista assoluto”
Il primo - e il più difficile - problema che si pone è quello di capire che cos'è lo zen. È facile conoscere l'origine e tracciare le linee del suo sviluppo storico; ma è difficilissimo capirne la natura, perché, quando si crede di averla afferrata, essa sfugge, come un'anguilla sfugge di mano al pescatore.
Intanto per tentare di dare corpo a chi corpo non ha e non vuole avere, si potrebbe affermare che lo “zen è guardare con in propri occhi, ascoltare le proprie orecchie, senza mediazioni, senza compromessi, senza giustificazioni per l’incomprensibilità degli atti di chi fa lo strano perché pretende di collocarsi al di là del bene e del male”.
Occhi che guardano senza mediazioni o categorie da applicare come con tanta efficacia ci riporta il monaco cristiano,T. Merton, , attento conoscitore cristiano del Buddismo e dello zen, nell’opera “Lo zen e gli uccelli rapaci”, ricorrendo alla metafora dello specchio:
“La coscienza zen è paragonata a uno specchio. Un moderno scrittore zen dice: Lo specchio è senza io e senza mente. Se arriva un fiore riflette un fiore, se arriva un uccello riflette un uccello. Mostra bello un oggetto bello, brutto un oggetto brutto. Rivela ogni cosa com’è. Non ha una mente discriminante, né coscienza di sé. Se arriva qualcosa lo specchio lo riflette; se scompare, lo specchio lo lascia scomparire… e non rimane alcuna traccia.
Tale non - attaccamento – lo stato di assenza mentale, o la funzione veramente libera di uno specchio – è qui paragonato alla pura e lucida saggezza del Budda. (Zenkei Shibayama, On Zazen Wasan, Kioto, 1967, p.28)”
Il buddismo zen non è un tipo di pensiero, e neppure un modo di pensare. Anzi, è lo stabilizzarsi nel non pensiero, nell’assenza di pensiero articolato, nello spazio vuoto tra un pensiero e l’altro.
Lo zen inizia quando ogni parola, anche il termine buddista, vista la sua inadeguatezza viene meno ed inizia il presente, la vita, il tempo vivente.
La realtà viva non abbisogna di alcuna definizione, è il nostro intelletto il portatore di tale bisogno.
Nell’illuminazione zen non è di rilevante importanza vedere Budda ma di essere Budda, e che Budda non è quello che le immagini del tempio ci avevano fatto credere: perché non c’è più nessuna immagine, e di conseguenza nulla da vedere, nessuno che vede, e un vuoto nel quale nessuna immagine è concepibile.
Se è lecito pensare di poter concludere una analisi su quanto più di indefinibile possa esservi quale è lo zen, si potrebbe dire insieme a Shan Hui che “Il vero vedere è quando non c’è più nulla da vedere”
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Koan
Kōan è una parola giapponese che viene dal cinese 公案 (pinyin: gong'an; Wade-Giles: kung-an). Il senso originale della parola è “legge”, “principio di governo”, o secondo alcuni “documento pubblico”, in giapponese ko: pubblico, e an: regola). In senso generale è un esempio che vuole essere di guida per la vita.
Nella filosofia zen il kōan è una frase paradossale o una storia usata per aiutare la meditazione e risvegliare una natura più profonda, di solito narra l'incontro tra un maestro ed il suo discepolo nel quale viene rivelata la natura più profonda delle cose.
L'uso dei kōan è tenuto in massima considerazione presso la scuola zen Rinzai , che si rifà agli insegnamenti del monaco Eisai (1141-1215), mentre è piuttosto trascurato dalla scuola Sōtō, fondata dal monaco Eihei Dōgen nel 1227 al suo ritorno dalla Cina, che pone l'accento soprattutto sulla meditazione in posizione seduta, o zazen. Secondo Daisetz Teitaro Suzuki (1958) l'esercizio basato sui kōan ha avuto origine per salvaguardare lo zen dal rischio di degenerare in quietismo o in una comprensione meramente intellettuale.
Presso la scuola Rinzai, o scuola del “cambiamento improvviso”, l'allievo partecipa a periodici colloqui formali con il maestro, chiamati sanzen, durante i quali gli viene chiesto di presentare il proprio punto di vista sul kōan che sta cercando di risolvere. La soluzione di un kōan comporta lunghi periodi di intensa concentrazione durante i quali viene adottata la stessa posizione della scuola Sōtō. Sembra che maestri esperti siano in grado di capire quando l'allievo è vicino alla soglia di un insight e riescano ad avvicinarlo a questa esperienza con atti inaspettati, spontanei ed improvvisi, intesi a bloccare il processo di pensiero concettuale.
Esistono tre importanti raccolte di kōan nel Ch'an e nello zen: “La barriera senza porta” (in giapponese: Mumonkan; in cinese: Wu-men kuan), “La raccolta della roccia blu” (Hegiganroku; Pi-yen lu) e “Il libro della serenità” (Shoyoroku; Ts'ung-jung lu). Con l'andare del tempo si costituì un vero e proprio canone, sistematizzato da Hakuin (1685-1768). Oggi esso ammonta a circa 1700 kōan, divisi in sei gradi di difficoltà. Occorrono circa trent'anni di studio per padroneggiare l'intera materia e diventare un maestro, ma l'addestramento abituale si limita ad una cinquantina di kōan.
Esempio di kōan
Un monaco chiese a Chao-chou: «Sono entrato proprio ora in questo monastero. Chiedo al patriarca di espormi la dottrina».
Chao-chou rispose: «Hai già mangiato il tuo riso bollito?».
Il monaco disse: «L'ho già mangiato».
Chao-chou disse: «Allora va' a lavare la ciotola».
Il monaco ebbe un'importante illuminazione.
Tratto dalla raccolta 'Una barriera senza porta'
Scopo del Kōan
Qual è lo scopo del kōan? È quello di umiliare la ragione e di mostrarne l'impotenza. In pratica, è quello di mettere il discepolo - è sempre il maestro zen che dà a ogni discepolo il kōan adatto per lui - di fronte a un vicolo cieco e a una strada senza uscita, da cui deve cercare in ogni modo di uscire. Quando, dopo inutili sforzi, si accorgerà di non poter trovare una soluzione logica e quindi si convincerà di dover abbandonare la ragione logica, egli comincerà a praticare il kōan nella maniera giusta, riflettendo giorno e notte su di esso con grande intensità fino a che diventerà egli stesso il kōan. Continuando ad applicarsi, tutto a un tratto, il kōan scomparirà dalla sua coscienza e questa si troverà completamente vuota. Basterà allora una qualsiasi occasione - un suono che colpisce l'udito, la vista di un oggetto, una sensazione forte - perché il suo spirito si apra a una “nuova visione” della realtà: è la“illuminazione” (satorì). Questo processo può durare anche alcuni anni e può essere necessario ricorrere a diversi kōan; però chi si applica con costanza al kōan sotto la direzione di un maestro zen giunge necessariamente al satori.
Questo consiste in una “nuova visione” delle cose, cioè nel vedere la realtà “come realmente è”. Infatti la realtà è unitaria, non duale, come appare al pensiero logico che distingue soggetto e oggetto, essere e non-essere, sì e no, l'io empirico e l'Io (o il Sé) assoluto. Chi giunge al satori vede la realtà non attraverso il pensiero logico, ma intuitivamente: non dunque come appare illusoriamente attraverso lo schermo del pensiero discorsivo, ma come è realmente. È essenziale però notare che il satori non si comprende mediante un'analisi intellettuale, ma soltanto per esperienza personale. Chi non lo ha sperimentato non può dire che cosa esso sia. E neppure può dire che cosa sia lo zen, perché, come dice D. T. Suzuki, “senza il raggiungimento del satori nessuno può penetrare nella verità dello zen”.